Rassegna Critica


Quasi a voler sovvertire le scelte “nobili e poetiche” – non sempre – operate dai fiamminghi in previsione delle loro poi celeberrime nature morte, Borella assume a protagonisti e/o deuterantagonisti delle proprie tele – meglio delle sue nutrite composizioni – una serie illimitata, eterogenea di cose e materie “povere”, rifiutate, gettate, scartate, spesso reperibili nei cimiteri nei cimiteri “oggettuali” e per nulla ecologici della civiltà dei consumi. Sono barattoli, monconi di biciclette, brandelli di stoffe, corde, cinghie, brani di giornali, legni d’aratri e falci (un monumento alla memoria della civiltà contadina?), calze femminili, rugginose lamiere e contorte, rami e tronchi d’albero rinsecchiti (tipo quelli che rimanda a terra la risacca del mare, o la corrente d’un fiume), levigati e coloriti sassi, scarpe dilacerate e via dicendo: insomma una sequela di ‘reperti’ senza vita, o che hanno cessato d’avere uno scopo per la vita dell’uomo. E fra di essi circola di quando in quando (magari previa citazione dall’opera di Dalì) un fantasma lattescente, dal volto non connotato, senza fisionomia: nella fattispecie la caricatura marziale d’un manichino oblungo come la lancia che afferra, il quale par ricordare l’immortale figura del cavaliere partorita dalla mente ancor più immortale di Miguel Cervantes de Saavedra.
Chissà se qualche Cavaliere non venga un giorno a far giustizia dello sperpero e dell’inquinamento che l’uomo contemporaneo commette ai danni della natura, e (in)consciamente di se stesso, divenendo spiritualmente viepiù simile ai tanti rottami che si vedono in giro e sui quali la pittura di Sergio Borella richiama la nostra attenzione, forse nella speranza segreta che questa diventi meditazione.

Dino Pasquali