Commento di Michele Loffredo


Nello scorrere i trentanove dipinti della Collezione Dell'Innocenti, la pittura di Sergio Borella si slarga in una galleria di visioni di oggetti e luoghi familiari, a tratti però inquietanti per l’intensa capacità di evocare quotidiani abbandoni calati alle soglie di un universo metafisico.
Sono immagini di nature morte artificiali, di rifiuti indegradabili, di plastiche, carte, manifesti, lattine, detersivi e così via, ma anche di foglie e rami, di ceppi nodosi, sassi e fiori secchi. Relitti umani accanto a relitti naturali, accostati da una sorta di complicità comune, di scambio simbolico oltre natura. Cose abbandonate, consumate e ora non più utili, ancora però dotate di vita e che offrono resistenza ad entrare nell’ultima camera della memoria, quella dell‘oblio.
La reazione al letargo della coscienza contemporanea e all’indifferenza verso la vita, in qualunque forma essa si presenti, naturale o artificiale, conduce l’artista a rivendicare il proprio ruolo, a rendere l’opera conseguente espressione del proprio sentire.
E' quindi una pittura di testimonianza critica incentrata sulle tematiche legate all'ecologia ed all'ambiente, sostenuta da una pratica pittorica rigorosa, di figurazione classica e non accademica, che deriva preliminarmente da una coerente scelta di vita e che rifluisce poi nell'attivita' artistica attestandosi in un ambito, da più parti riconosciuto, come “pittura ecologica”.
Naturalmente questa lettura si impone immediatamente al nostro sguardo, risaltando su di ogni altra ipotesi interpretativa. La centralità del messaggio assume rilievo predominante, ma credo sia proprio questo predominio che deve indurci a sospettare, a chiederci quali siano i significati profondi, per quali cammini l’artista guidi i suoi tratti distintivi, quali siano le strade che conducono all’opera, così da realizzarne una ricognizione complessiva.
Infatti l’aspetto ecologico non deve far passare in secondo piano altre tensioni, quali quelle pittoriche, dove possiamo giungere a comprendere più sottili verità, le sole a dar valore all’instancabile ricerca dell’artista e dell’uomo, di cui l’arte può farsi strumento efficace.
Così se l’opera di Sergio Borella può sembrare di facile conquista appare evidente, anche alla prima lettura, che nasconde un'impressione di insoluto, un richiamo ad una condizione che va sicuramente oltre la semplicistica etichetta di denuncia ecologica per accamparsi chiaramente in una osservazione sull’essenza e i rapporti delle cose, sul fluire incessante del tempo, sul nostro ruolo nell’universo. Da sempre, i fondamentali interrogativi dell’arte, qui richiamati in una dimensione cosmica, di problematica esistenziale.
Sergio Borella nasce a Milano nel 1939, trascorre l’infanzia a Bare, in provincia di Parma, ma già nel 1950 è di ritorno a Milano. Nel capoluogo lombardo frequenta l’Accademia di Brera, sotto la guida di Lucio Fontana dal 1957 al 1960. Subito dopo inizia a lavorare come illustratore, entrando a far parte dello Studio Dami, tra i maggiori del settore. A ventotto anni si trasferisce a Firenze, alternando l’attività di illustratore a quella di pittore.
A Firenze compie svariate esperienze artistiche, sperimentando ogni tipo di tecnica e stile, dalla macchia all’informale, dal realismo all’astrattismo, provando strade diverse con disciplina costante.
Per seguire la carriera di illustratore, si trasferisce a Londra dove lavora per le più importanti case editrici europee. Nel soggiorno londinese ha occasione di approfondire il suo bagaglio culturale, ma è nel 1967, di ritorno a Firenze, dove matura l’idea centrale della sua pittura.
Nell’attraversare i boschi intorno a Bagno a Ripoli, dove abitava, osserva le prime manifestazioni di degrado, le prime discariche a cielo aperto, i rifiuti sparsi nel verde, l’inquinamento che avanza, già fresco del confronto con la più educata Inghilterra. E’ lì che concepisce una pittura che sia anche impegno civile, non legata solo al mercato o alla ricerca di riconoscimenti del jet set artistico, ma che sapesse farsi carico di problemi reali ed urgenti. Questa scelta rispondeva all’esigenza sia di finalizzare la pratica artistica e sia di ritrovare la propria identità di uomo.
Dopo un breve soggiorno a Varese, Borella risponde di nuovo al richiamo della Toscana, trasferendosi, definitivamente da ormai un ventennio, nella quiete di Monte Sansavino. E lì che, tra estimatori e amanti d’arte, conosce Giuseppe e Claudio Dell’Innocenti, padre e figlio, che diventano gli apprezzati collezionisti del ciclo di opere che va dal 1974 al 1994.
La comprensione dell’arte non è innata, è innata la sensibilità, la capacità di potersi emozionare ad un messaggio, di poter vivere in comunione col mondo dell’artista. L’amante dell’Arte ritiene che questo sia un valore fondamentale per rendere la vita degna di essere vissuta. Il rapporto che si crea tra artista e collezionista è un momento magico. Il collezionista perché trova una verità che cercava, l’artista perché può darla.
Borella è un uomo schivo, di poche parole, ma sa ascoltare. Conoscendolo si ha l’impressione di una persona metodica e tranquilla. Invece la sua pittura dichiara che intimamente è indomito e partecipe del suo tempo.
Infatti afferma “Nei miei quadri porto la convinzione delle mie idee, della mia personalità, contrapponendo la bellezza della natura alle brutture della nostra società, brutture causate principalmente dalla maleducazione dell’uomo e dalla sua indifferenza”.
Per Borella il rapporto con l’arte è sempre stato improntato alla totale chiarezza d’intenti. Essa serve per manifestare idee, idee di non omologazione, di opposizione al consumismo divenuto teoria e pratica del mondo. Essa è inoltre considerevole per capacità dialettica, ma non si può ridurla solo a conseguimento estetico, vuotandola dei valori di testimonianza e partecipazione.
L’artista cerca di svanire dietro la sua opera, che rimane la concreta essenza del suo pensiero e suo lavoro, non c’è bisogno di altro, perchè la comunicazione deve perdersi nell’esperienza collettiva. Così da giungere ad una pittura che parli a tutti, e dove, come ebbe a dire un critico milanese, “E’ la prima volta che non leggo la traccia di un pittore!”.
Sergio Borella si dichiara soddisfatto per la capacità raggiunta di non segnare nessuna traccia apparente, di non professare il virtuosismo della personalità originale, tanto da richiamare alla mente certe esperienze di arte orientale dove l’artista annulla la propria impronta personale, in favore di linguaggio universale disciplinato dalla tradizione.
Così, questa assunzione di un ruolo impersonale, diviene il miglior stratagemma per l’artista savinese, infatti risponde bene anche alla sua dichiarata scoperta: dietro le tracce del degrado dell’uomo, il grande assente è proprio l’uomo.
Questa assenza pesa, come una spada di Damocle, sulle equilibrate composizioni, sull’armonia dei volumi, sulle espansioni del colore, tutte rese in un’oggettività neutrale, minimalista. Pesa sulle immagini e sulle visioni di ciò che la nostra epoca ha già lasciato in eredità ad un osservatore di un lontano futuro. L'uomo, quando vi appare, è quasi sempre come reperto archeologico, manichino marmoreo, o frammento illustrato.
Sergio Borella non si accampa nella generica denuncia, come i tanti che abbracciano la protesta verde, ma è sorretto da una sintassi espressiva consapevole, magistrale distillato dell’approdo a generi e linguaggi artistici che l’autore ha avuto occasione di sperimentare.
Da più parti si è già osservato che la sua pittura si richiama alle suggestioni dal Surrealismo e dalla Metafisica, ma occorre anche sottolineare che non è una volontà programmatica che lo spinge ad operare in questa direzione, ma il risultato del lavoro attinto per altra via, quella della Natura Morta. Infatti è il bisogno di costruire un insieme diverso di oggetti e di brani visivi, apparecchiati secondo le regole della natura morta, che costruisce l’evento straniante di eco surrealista. Inoltre l’implacabile concisione delle raffigurazioni che determinano un’atmosfera metafisica, statica e misteriosa, è controllata nel non cedere alle seduzioni della pittura iperrealista, infatti non è freddamente fotografica, ma di certo sensibile ai registri dell’illustrazione, della grande illustrazione americana, primo fra tutti Norman Rockwell, a cui qualche dipinto, come Week-end, si intona.
Se dovessimo trovare riferimenti e conforto nel generi artistici potremmo quindi assicurarne l’ambito a quello della Natura Morta.
Risalta inoltre, con immediatezza disarmante, l'aspetto legato alla trascrizione non solo della grande lezione di un genere che ha trovato significative manifestazioni nel Seicento, dai napoletani agli olandesi, ma anche del riaffacciarsi degli insegnamenti del Purismo.
Una pittura quindi caratterizzata da pulizia e semplificazione, che richiama collegamenti distanti, uniti però in una sintesi vigorosamente allegorica; inoltre scrutata in una fantastica condizione atemporale, al riparo dai cambiamenti, e che solo uno sguardo incantato ci permette di penetrare.
Siamo interamente proiettati in un'altra dimensione simbolica. Oggetti, cose e figure perdono le loro misure naturali. Corolle di fiori giganteschi e manichini minuscoli dialogano a distanza ravvicinata con capitelli ionici, bottiglie di plastica rotte sovrastate da ritagli bruciati di giornale e corde. Gli oggetti sembrano assumere forme nuove, che prima non avevamo visto, assumono strani caratteri che li fanno sembrare abitanti esiliati di un mondo parallelo che si nutre di nostalgia.
Egli pone figure reali in composizioni dall’apparenza irreale. Vi sono rispettate le classiche regole compositive, gli oggetti vengono disposti con sagacia scenografica su un piccolo palcoscenico dove vivono quali interpreti di un malinconico dramma. Un teatro dai fondali evanescenti, dalle cortine atone, che danno rilievo agli immobili personaggi in primo piano.
Levando equilibri da dissonanze, custodisce le vestigia di un mondo insolito, un’archeologia del presente che lo rivela pittore colto e non di maniera, profondo conoscitore della regola artigianale e del suo farsi arte.
Per quanto la tematica della natura morta sia il filone portante, le scene non sono mai ripetitive, c’è un’incredibile varietà di rappresentazioni. L’artista non si ferma su radi oggetti, ma va esplorando il mondo, lo va conoscendo dalle sue spoglie, dalle lattine alle pagine aperte di riviste, dalle bambole di gomma ai sudari di carta, da resti di sculture ad arnesi contadini, restituendoci quello che siamo.
Il suo occhio osserva tutto da una prospettiva distaccata: nel loro grado zero di reperto, industriale o naturale che sia, gli uni non scavalcano gli altri, solo per una magica casualità del destino, sembra che qualche elemento prevalga, a dare significato e titolo alla composizione, in realtà tutte le cose vivono un’esistenza di uguale valore. Nessuna sopravanza l’altra, tutte come sono a rassegnare lo stesso tipo di rapporto con mondo: il rifiuto.
Ed è proprio il rifiuto, inteso da tutti i punti di vista, che Borella mette al centro della sua poetica. E’ un’intuizione che gli permette di rendere oggettivamente i prodotti di questa società, senza nessun intervento se non quello di raccogliere le cose più disparate e raffigurarle, così come il mondo le ha dimenticate. Ma queste immagini di immondizie diventano, sotto la sua mano, ritratti eminentemente estetici, brani di ricordi, schegge di memorie, frammenti di storie, orme di esistenze passate.
Raccogliendo immagini di visioni interrogative, di dialoghi muti tra cose, li consegna ad una pittura magistralmente figurativa, dai toni caldi o freddi, ma sempre ovattati, albeggianti o crepuscolari, cieli preferiti dove si accampano queste taciturne rappresentazioni.
Infatti sembra che il padrone sia il silenzio, un silenzio commemorativo che aleggia in una sorta di et in arcadia ego moderna, dove vanno sparendo tutti gli attributi della classica raffigurazione agreste, sostituiti con ritrovamenti attuali, ma resta intatto il monito sulla vanità del mondo e sulla precarietà dell’esistenza.
Una pittura, quindi, che abita dimore filosofiche alte, per una testimonianza che origina dall’individuale per indicare una speranza salvifica universale.
Quasi a segnare un’ascesi mistica, pervasa da un sentimento di spiritualità che aleggia sulle figurazioni, restituisce opere in una sorta di pittura sacra, per quanto profani siano gli oggetti rappresentati.
Non solo miti infranti e utopie naufragate, ma anche la fede, quella affidata ai propri ideali che lo vedono ogni giorno, concentrato su se stesso, a preparare la tela, stendere i fondi, dare il colore, addolcire i toni, calare velature, sfumare, dipingere il suo tempo.


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